L’estasi di Manchester

Milan-Juve: 17 anni fa, all’Old Trafford, il sesto trionfo rossonero in Champions.


Chiedete ad un rossonero: qual è, per te, la più grande gioia provata da tifoso? Tanti vi indicheranno, certamente, la conquista della Coppa dei Campioni il 28 maggio 2003, nella finale contro la Juventus.

Un sogno che si avverò nello splendido scenario inglese dell’Old Trafford di Manchester. Di fronte, come in uno dei duelli immortalati da Sergio Leone nei suoi capolavori cinematografici della “trilogia del dollaro”, la Vecchia Signora di Marcello Lippi, fresca di scudetto, ed il Milan di Carlo Ancelotti, il mister che, dopo la militanza in bianconero, si era visto affibbiare l’appellativo di “perdente” per via di uno scudetto svanito all’ultima giornata sotto la pioggia torrenziale di Perugia.

Una lunga cavalcata iniziata a ferragosto

Per i rossoneri era stata una cavalcata europea, lunga ed estenuante, cominciata alla vigilia di ferragosto del 2002 con il preliminare contro lo Slovan Liberec, proseguita con il successo casalingo contro il Lens (griffato Inzaghi), non tralasciando la doppia vittoria contro il Bayern Monaco in un girone chiuso al primo posto con due gare d’anticipo.

Superato lo scoglio del secondo turno, ancora con la formula dei gruppi, e avendo come rivale anche il Real Madrid di Del Bosque, subito battuto da un gol di Sheva su magistrale assist di Rui Costa, il Milan piazzò tre vittorie di misura (contro il Borussia Dortmund e due volte a spese del Lokomotiv Mosca) che misero al sicuro il passaggio ai quarti, trasformando in mera passerella la temuta trasferta al Bernabeu.

Espugnato all’ultimo assalto il fortino dell’Ajax, in semifinale toccò all’Inter di Cuper lo scomodo ruolo di delusa. L’ultima Coppa dei Campioni nerazzurra risaliva all’era calcistica mesozoica. Bastò un guizzo di Shevchenko e due “paratone” di Abbiati nel finale per liberare, dalla Curva Sud, il grido e lo striscione “Noi andiamo a Manchester”.

L’eterna dicotomia di una finale: gloria o dramma?

Una partita dal sapore speciale, un discorso totalmente italiano e contro la Juve, la più titolata in ambito nazionale ma balbettante in Europa. E poi, gli anni che finiscono con il 3 rievocavano oscuri presagi per gli zebrati, con Rep e Magath come incubi perenni.

La distanza tra la gloria e il dramma sportivo, tra il precipizio e l’olimpo era risicatissima. Il pronostico diceva Juve, anche se di poco. Prima del match pensai a quante volte, da bambino, immaginavo di assistere ad una finale così importante tra Milan e Juve, fantasticando di gol decisivi segnati da Jordan o Blissett, da Battistini o Antonelli, magari dopo un dribbling prolungato di Monzon Novellino o di Gianni Rivera.

Simulavo partite con un pupazzo trovato nei formaggini dove alla fine erano sempre quelli in maglia rossonera a vincere. E mia madre sorrideva, ascoltando la radiocronaca di quelle partite immaginarie. Poco più di venti anni dopo la fantasia diventava realtà.

Da un punto di vista sportivo, l’abisso della delusione e la luce della gloria imperitura si toccavano drammaticamente quella sera. Calcio d’inizio, stomaco chiuso a doppia mandata, battiti cardiaci accelerati, cuori deboli a rischio.

Al gol annullato a Sheva in tanti pensarono: “Ecco, i soliti gobbi aiutati dagli arbitri”. Dopo la paratona di Buffon su Inzaghi (prodezza incredibile, direbbe Piccinini) rimasi in un silenzio quasi spettrale. La dea bendata sembrava aver scelto i nostri avversari.

Minuti di sofferenza, la traversa di Conte (una stilettata che passa ad un centimetro dai cuori rossoneri), il nostro Roque Junior, infortunato, che passeggia sulla fascia nel secondo supplementare perché non c’erano più sostituzioni disponibili, come il soldato sudista trovato dal Biondo prima di entrare nel cimitero di Sad Hill. La Juve, però, scelse di non osare, sbagliando.

Il rigore decisivo di Sheva

I rigori: il momento della verità

Poi, i rigori. Adrenalina in tutto il corpo, il cuore che batte a più non posso. Ad ogni parata di Dida un urlo disumano, dopo le risposte di Buffon un’imprecazione. Come la tela di Penelope, lavorata e subito disfatta, o Sisifo che arriva in cima alla montagna con il pesante masso sulle spalle per poi vederlo rotolare nuovamente a valle.

Lo sceneggiatore occulto della serata aveva deciso di far saltare le coronarie di tanti. Gli inglesi, che avevano conosciuto il nostro portiere quando risiedeva a Paperopoli (che cappellata contro il Leeds!), lo ritrovarono in versione “Hurricane Polymar”.

Quando Nesta gonfiò la rete, dal tunnel, nitido apparve il bagliore della luce del trionfo. Il Milan, all’inizio dell’ultimo rettilineo, prima del traguardo, si presentò con un vantaggio minimo ma fondamentale a quel punto della sfida infinita. Bastava il gol di Sheva nell’ultimo tiro.

Eravamo nelle mani del nostro miglior rigorista. Situazione ideale. Lo sguardo del fuoriclasse ucraino, prima del fischio arbitrale, fu come l’occhiata di Sandokan prima di abbattere la tigre. Rincorsa breve, pochi istanti per ripensare a quel sogno fatto da bambino. Tiro: Buffon da una parte, palla dall’altra. Vittoria!

Paolo Maldini alza la coppa 40 anni dopo il padre

Le porte dell’alba si spalancarono davanti ai suonatori rossoneri, una serata che niente e nessuno avrebbe potuto mai cancellare. Mi ritrovai rotolante a terra a festeggiare con un mio amico fraterno. Entrambi, da bambini, avevamo ingurgitato una miriade di sfottò nelle annate della doppia serie B e della Mitropa Cup.

Che a quell’età delicata era come dire ad un bambino che Actarus fosse un depresso cronico in cura da uno psicanalista e Capitan Harlock avesse una tremenda paura del buio. Stagioni, oltretutto, mai rinnegate dai veri tifosi rossoneri.

Ripensai al pomeriggio di lacrime del febbraio ’82 quando il carneade Galderisi ci rifilò tre gol spingendoci verso il baratro della seconda retrocessione. Immaginai la delusione provata da mio padre nel maggio ’73, con la Stella sfumata all’ultima curva nella Verona fatale.

La coppa alzata da Maldini fu l’attimo in cui l’emozione toccò il picco massimo. Le strade di tanti paesi e città si colorarono di rossonero mentre i tifosi juventini andavano a rintanarsi a casa. Per l’intera notte sfogliai la mia collezione rossonera.

A quattro decenni dal trionfo di Wembley e venti anni dopo la seconda promozione dalla B, “diamanti e ceneri” della storia milanista, il Milan suonava la sesta sinfonia, alzando la “coppa dalle grandi orecchie”. Paolo Maldini come suo padre Cesare a 40 anni di distanza.

Come tornare bambini

Mi sembrò di condividere quegli attimi di vera gioia insieme con Rivera e Albertosi, Bigon, Paron Rocco e il barone Liedholm, De Vecchi e Virdis, il trio olandese, capitan Baresi, Tassotti ed i giocatori che hanno accompagnato la mia infanzia ed adolescenza di “milanista vero” che nulla ha mai rinnegato nella storia del diavolo rossonero.

Quei campioni della nostra storia che rivendendoli in foto quella notte sembravano sorridermi. Tornai bambino, mi ritrovai a gioire con in mano la bandiera del Milan e una sciarpa, la stessa che avevo indossato dopo lo scudetto del ‘79 e quello del 1988. Il risveglio fu leggero.

Ove mai fosse esistito un centro di gravità permanente, il 28 maggio 2003 ero riuscito finalmente a trovarlo.

Sergio Taccone

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