Nereo Rocco, il Paron ci lasciava 41 anni fa

Del Paron restano la personalità e la sua ironia, i modi spontanei e sinceri, la mancanza di ipocrisia e l’altissimo spessore umano. Nel calcio isterico attuale, tutto lustrini e business, Rocco si troverebbe in totale disagio.

Nereo Rocco si congedò dal mondo il 20 febbraio 1979. Aveva 66 anni. Due giorni prima, il suo Milan si era fatto imporre il pareggio casalingo dalla modesta Atalanta di Titta Rota. Il ricordo del Paron cresce con il passare del tempo. Uno dei tratti distintivi di Rocco fu la sua straordinaria umanità, trasmessa in maniera spontanea. Il suo palmares scorre come una giaculatoria: 2 scudetti, 2 Coppe dei Campioni, 2 Coppe delle Coppe, 1 Coppa Intercontinentale e 4 Coppe Italia. La sua eredità è fatta di grande personalità e ironia, modi spontanei e sinceri, assenza di ipocrisia e presenza di un altissimo spessore umano.

Maestro nell’abbassare la tensione, potenziare il gruppo, infondere sicurezza e determinazione ai giocatori. “Tuto quell che se movi su l’erba, daghe. Se xe la bala, pasiensa”. Passò per “catenacciaro”, che poi equivaleva a dire “iper-difensivista”. Poi, andando a vedere il suo Milan, ci si accorge che, nel suo primo periodo rossonero, schierò Mora, Altafini e Barison, nel secondo Sormani, Rivera, Prati e Hamrin. Sul pullman diretto verso Wembley, prima della finale di Coppa Campioni del ’63 tra Milan e Benfica, il Paron così parlò ai suoi giocatori: “Chi no xe omo resti a sedere sul pullman”, lasciandosi cadere sul sedile. Quando giunse all’aeroporto per l’arrivo di Dino Sani, ebbe l’impressione di avere di fronte un impiegato del catasto: bassino e con pochi capelli. Poi, lo vide in campo ed il brasiliano lo convinse subito.

Rocco in panchina stagione 70/71

Nereo Rocco, simbolo di un calcio di altri tempi

Ginko Monti, medico sociale rossonero di lunghissimo corso, scomparso nel gennaio 2019, ricordò a Garanzini, autore di un bellissimo libro sul Paron, l’aneddoto di Malatrasi e Cruijff. “Signor Rocco, cambi, cambi..”. Il Paron, rivolto al dottor Monti in panchina, disse: “Cossa xè ch’el vol ?”. Monti gli spiegò che Malatrasi voleva cambiare la marcatura su Crujiff.  “Dighe che s’el cambiassi le mudande”, aggiunse il Paron. Nel calcio isterico dei tempi moderni, tutto lustrini e business, Rocco si troverebbe in totale disagio. Ne siamo certi.

“Qualcosa è rimasto, che non può essere solo nostalgia. – scrisse Gianni Mura nel trentennale della scomparsa del Paron – Chi, come me e altri della mia generazione, ha avuto la fortuna di conoscere Rocco oltre la superficie, non riesce proprio a immaginarselo mentre risponde alla D’Amico pochi minuti dopo la fine della partita, o forse sì ma con gravi rischi per il bon ton. Come quando, nei camerini della Rai, prima della Domenica Sportiva, provarono a truccarlo e lui espose succintamente un uso alternativo per il pennello. Ma erano altri tempi, i calciatori erano soggetti a vincolo, le tv non facevano pressing e negli spogliatoi dopo un po’ entravano solo i giornalisti col taccuino in mano”.

NEREO ROCCO, LA GRANDE ANIMA ROSSONERA

Di Nereo Rocco resta il ricordo e la voglia di ricordarlo per non dimenticare che “è esistito un calcio che ignorava l’aggressione dello spazio e le ripartenze, dove i calciatori di casa la domenica andavano a piedi allo stadio” ed in cui le polemiche tra difensivisti e offensivisti “si svolgevano sui giornali, con Brera e Zanetti da una parte, Palumbo e Ghirelli dall’altra”. Con l’ottusità numerica di oggi, lo schema del Paron sarebbe un “1-3-3-3”: il libero dietro la difesa e poi tutto il resto. Il football di Rocco contemplava l’ala e Kurt Hamrin fu uno dei preferiti dal Paron. Una delle poche volte in cui ebbe paura fu in Argentina, contro i macellai dell’Estudiantes, nella partita dell’inferno alla Bombonera ricordata di recente nel bellissimo libro Milan, gli eroi della bombonera. Storia e protagonisti di una partita epica, a curadi G. Bungaro, U. Bungaro (Illustratore) e testi di Comunque Milan. Ci furono botte da orbi quella sera, Morero trovò anche il modo di pungere con un ago Gino Maldera.

L’ultima avventura calcistica di Nereo Rocco fu nell’annata 1978/79: osservatore del Milan di giorno, con puntuali e precise relazioni consegnate a Liedholm sulle avversarie dei rossoneri, la domenica sera spesso a commentare alla Domenica Sportiva. “Non era più quello di sempre, scoppiettante e irresistibile: ma restava pur sempre talmente al disopra della media, – ricordò Garanzini – talmente lontano dalle banalità di routine che non era facile accorgersene”.  Entrando negli studi milanesi della Rai, in corso Sempione, trovò numerosi fotografi ad attenderlo. Qualcuno tentò di passargli del trucco in faccia. “Atenti, che ve digo cossa far de quel penel”. In onda sembrava a disagio: sudava e smaniava, distante anni luce dal Rocco del ‘74 durante la celebre intervista di Brera.

Rocco, negli studi della Rai alla Domenica Sportiva

La notizia della sua morte giunse mentre i rossoneri si apprestavano ad affrontare la fase decisiva del campionato che avrebbe portato finalmente quella Stella sfiorata più volte dal tecnico triestino. Un titolo che gli venne scippato nel 1973. L’ultimo trionfo in rossonero – la Coppa Italia – lo centrò il 3 luglio ’77, nella sera dell’addio al calcio giocato di Sandro Mazzola. “La mia tabella è il campo e lì, con esempi pratici, al martedì rivediamo gli sbagli fatti alla domenica”, soleva ripetere. Dopo aver visto giocare Rivera a Padova, con la maglia dell’Alessandria, negli spogliatoi disse: “Meio de lui g’ho visto solo Meazza”. L’etichetta di duro la definiva “una favola raccontata dai giornalisti”. A Franco Mentana disse: “Esigo un po’ di disciplina e basta. Più va male la baracca più sono vicino ai giocatori”.

Nelle teche Rai c’è la già citata intervista che gli fece Brera nel 1974, straordinario pezzo di giornalismo. Sul tavolo, sotto il pergolato della casa triestina del Paron, c’era una quantità impressionante di bottiglie, qualcuna adagiata anche tra l’erba. Dall’una alle sette, andando avanti a parlare, mangiare e bere, con gli operatori, incitati da Gianni Minà, che girarono chilometri di pellicola. Fellini cercò di scritturarlo per il film Amarcord. Lusingato, il Paron rispose che “aveva dei nipotini e che non poteva fare il pagliaccio”. A Trieste, la trattoria Jeti fu la sua tana, a Milano scelse il ristorante l’Assassino.

Milan-Amburgo 2-0, finale Coppa delle Coppe 1968

Il preannuncio del capolinea arrivò all’inizio di dicembre del ’78. Prese parte alla trasferta del Milan a Manchester (ritorno di Coppa Uefa). Si sistemò nell’albergo che ospitava i giornalisti e i tifosi. Chiese un consulto medico a Ginko Monti che gli consigliò di starsene in albergo, al caldo. “La partita gliela raccontiamo noi”, aggiunse il dottore. La sera dopo, allo stadio del City, sei gradi sotto zero, Rocco si sistemò in una tribunetta al di sopra della sala stampa. Gara senza storia: Milan battuto 3-0 ed eliminato. Nel viaggio di ritorno Monti dovette praticargli un’endovena per lenire la tosse, prescrivendogli riposo assoluto in attesa di fare dei controlli che avrebbe comunicato al figlio Tito.

Il Paron si spense in un mattino freddo di febbraio. Il suo tempo si esaurì con il Milan al primo posto, deciso a tagliare vittoriosamente il traguardo della Stella. “Al decimo scudetto ci si arriva, festeggeremo insieme a Milanello”, soleva ripetere negli ultimi giorni, pensando anche a Paolo Rossi come rinforzo per la stagione successiva, per affrontare bene il ritorno in Coppa dei Campioni. Il Milan era come un figlio putativo. Maestro di vita e di sport, Rocco è definito dai tifosi rossoneri “la grande anima milanista”. La sua lingua preferita era sempre stata il calcio. “Era un uomo, Rocco. Di quelli che mancano al calcio di oggi. – disse Gianni Rivera – Di quelli che non ti fanno venire il mal di testa con gli schemi, perché il calcio è uno sport assai più semplice di quello che talvolta si vuol far credere”. Gian Paolo Ormezzano, direttore di Tuttosport, lo definì Italiano di un’Italia delle più valide. “Non volergli bene significava automaticamente essere cattivi. Non è stato un prodotto del calcio; casomai, lui ha prodotto calcio”, aggiunse Ormezzano. A reggere la bara sulle spalle – oltre a Gianni Rivera e Albertino Bigon – ci fu anche il campione di pugilato Nino Benvenuti.

Nel ricordare Nereo Rocco, nel giorno del quarantunesimo anniversario della sua dipartita, non fiori ma un bicchiere di vino rosso.

Sergio Taccone

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