Manchester, Old Trafford, theatre of the dreams. Milan-Juventus 3-2

di Fabrizio Perotta

28.5.2003. Io non ho più paura.

Irregolari ciuffi d’erba si trovavano sulle fasce laterali. Per il resto solo terra, tanta, con ostinate pozzanghere al cadere delle prime piogge, anche modeste. Una spessa polvere ricopriva invece il campo quando l’estate diveniva torrida, come quella cantata da Adriano Celentano nella sfumata dimensione di solitarie domeniche trascorse in oratorio.

La morfologia del luogo era alquanto semplice. A destra, dietro la porta, una vecchia cascina. L’enorme squarcio tra i mattoni della facciata ingoiava più palloni di pacman e l’attività di recupero non risultava delle più agevoli. Con i gradini della scala ridotti a pietre ammassate, si saliva aggrappandosi ai rami di un albero. I rovi graffiavano le braccia e le gambe. Dalla parte opposta un vetusto blocco di cemento dalla forma irregolare.

Quasi nessuno vi sedeva, anche se non ho mai capito il motivo, salvo la domenica pomeriggio, durante le partite di campionato, quasi a ricreare le gradinate di uno stadio immaginario. I grandi si riunivano così in capannelli intorno alle radioline mentre i bambinetti approfittavano dell’improvvisa libertà d’azione. Allegri e scanzonati dribbling nel più caotico tutti contro tutti che si potesse immaginare.

    Quel giorno il Milan, al Comunale di Torino, stava sorprendentemente tenendo testa alla capolista. Possibile svolta di una stagione disgraziata ma il Dio del Calcio aveva già deciso altrimenti. Pollice verso, come il più capriccioso imperatore romano nell’arena dei gladiatori.

    Copiosi gli improperi degli juventini: «Come cazzo si fa a non vincere contro questi?»  

Angelo era imbufalito. Alto, magro e particolarmente incline alla bestemmia, viveva con la sciarpa bianconera al collo. Noto per la sua capacità di tirare fortissimo, leggenda vuole che con una pallonata avesse rotto il braccio a un avversario. Tutti lo rispettavano e temevano. Esultargli in faccia al gol di Collovati forse non era stata una buona idea.

«È pur sempre il Milan» ribatté qualcuno.

    «Ma se vanno in B, te lo dico io», la chiosa con fastidiosa saccenza di Angelo, sempre più incazzato. 

    I fatti purtroppo gli avrebbero dato ragione. Giuseppe Galderisi, diciannove anni appena, precettato all’improvviso dal torneo di Viareggio, segnò ancora. Tripletta personale per lanciare la Juve verso la seconda stella mentre noi sprofondavamo nell’ignominioso baratro della retrocessione. 

    Questo il primo vero ricordo della Juventus. Urla sguaiate dei suoi tifosi e io in fuga verso casa adducendo un diplomatico mal di testa. Pedalavo a manetta sull’asfalto pericolosamente viscido mentre gli occhi si inumidivano di qualche estemporanea lacrima. Tutta la sofferenza dell’amore nel giorno di San Valentino.

    La memoria è così. Frammenti di vita pronti a riaffiorare all’improvviso, senza un perché. A distanza di vent’anni, sono in auto diretto a Milano, riunione Fossa dei Leoni quando mi ritorna in mente quella maledetta domenica e Giuseppe Galderisi. 

    Conosciuto come “Nanu” per la sua bassa statura, dopo il precoce esordio nella Juve si ritaglia una carriera di tutto rispetto. Grande protagonista a Verona per lo storico tricolore della città scaligera, veste anche il rossonero nella prima munifica campagna acquisti di Silvio Berlusconi. Non ingrana. L’illusoria fiammata all’inizio del girone di ritorno è insufficiente ad assicuragli la riconferma; decisivo il rigore fallito contro la Samp. Giornataccia. Violenti scontri sugli spalti e l’intollerabile sfregio a Nils Liedholm. Un sasso squarcia il vetro della panchina, l’ultima, in quello che resterà sempre lo stadio della sua vita, prima ancora da giocatore. 

    «Il più lungo applauso di San Siro l’ho ricevuto quando sbagliai un passaggio. Erano tre anni e mezzo che non capitava». Aneddoto tra i tanti che amava raccontare. Di fronte a qualche faccia perplessa, imperturbabile: «È vero e ogni volta aggiungo un mese». 

    Unico, semplicemente il Barone. Viene quindi “promosso” a direttore tecnico per lasciare posto a Fabio Capello. A fine stagione arriverà, poi, un altro totem della storia rossonera, Arrigo Sacchi, mentre in campo, al posto di Nanu, Marco Van Basten da Utrecht. What else?

    Poco tempo per organizzare il viaggio a Manchester, finale di Champions League. Dopo il derby in semifinale, non avrebbe potuto esservi avversario peggiore. I dieci minuti successivi al gol di Martins credo possano rappresentare con attendibilissima verosimiglianza l’inferno sulla terra.  Difficile dire quale delle due squadre detesti maggiormente, sempre dipeso dal periodo e dalle contingenze del momento. Affrontare entrambe, all’ultimo atto della competizione internazionale per eccellenza, resta però il più sadico e perverso scherzo che il Dio del Calcio, sempre lui, potesse confezionare. 

    Gli incontri della Fossa si tengono ormai da qualche anno in Viale Bligny, Circolo Forlanini, un luogo d’altri tempi. A due passi dalla movida sui Navigli milanesi sembra di venire trasportati in una versione rivisitata dei racconti di Guareschi. Anche se non è proprio la celebre trasposizione cinematografica di Peppone e Don Camillo nella Brescello dell’immediato dopoguerra, i comizi di Enrico Berlinguer alle pareti e la Sambuca con la mosca regalano suggestioni retrò di un comunismo d’annata.

    Fa un caldo insopportabile. L’estate del 2003 diverrà famosa come una delle più calde degli ultimi cent’anni. Siamo solo a maggio ma già l’afa opprimente leva il respiro, infuoca le case. E la notte, se possibile, è ancora peggio. Non i migliori prodromi. La gente, sudata, si accalca in code disordinate intorno al tavolo del direttivo. Bestemmie e ripetuti inviti a stare indietro. Riescono però nell’impresa di accontentare quasi tutti: un migliaio di Leoni possono partire alla volta dell’Inghilterra. 

A Manchester per la ‘catarsi’

    Sesta finale dell’era moderna, sesta volta presente. La partita in cui il calcio italiano fa i conti con sé stesso e la propria storia. Grazie al presidente Berlusconi il Milan siede da anni al tavolo delle grandi d’Europa ma molti portano ancora nell’animo le ferite di quando i rossoneri erano un “piccolo diavolo”. Con Moggi e Giraudo, in fieri una nuova germinazione di quell’ancien regime un tempo impossibile da sovvertire. Battere la Juventus, allora, come un rito purificatorio, liberazione dal giogo di gravi e persistenti ingiustizie. A Manchester per la catarsi.

    I rapporti tra le tifoserie, ontologicamente cattivi, arrivano al punto di non ritorno proprio in questa stagione. Un pullman di ultras rossoneri che sta andando a Empoli nei pressi di Parma, all’autogrill San Martino, incrocia gli juventini diretta nella capitale. Attaccano, non accorgendosi della netta inferiorità numerica e hanno la peggio. Nella confusione vengono anche sottratti due striscioni e alcuni stendardi.

    «Se conosci il nemico e te stesso, la tua vittoria è sicura». Diceva Sun Tsu nell’Arte della Guerra. Un precetto semplice quanto efficace e l’occasione si presenta presto, nel girone di ritorno. Il nutrito corteo juventino viene assaltato in zona ippodromo. Aperta la via da un lancio di torce impressionante, cariche ripetute secondo una tecnica quasi militare. Nulla può l’opposizione degli sbirri di fronte alla furia vendicatrice. Diversi contusi sul selciato, molti altri si danno alla fuga. Shevchenko-Inzaghi, in campo finisce 2-1.

    Quattro giorni all’evento, anniversario di quando al Camp Nou di Barcellona il Milan cambiava per sempre il calcio. Dalle ramblas alla canicola asfissiante della Bassa padana, Piacenza, dove si gioca l’ultima di campionato. La gara è quasi un pretesto per vivere l’attesa insieme. Cori goliardici ma anche grande tensione «perché coi gobbi sarà guerriglia vera».

    Previsti scontri, un’italica resa dei conti in terra d’Albione. Livello di guardia altissimo. Gli eventuali incidenti potrebbero avere pesanti ripercussioni sull’assegnazione all’Italia degli Europei del 2012. Pericolo scongiurato grazie alla sinergia tra Digos e polizia inglese che riescono nell’intento di evitare ogni contatto. Gli juventini vengono così dirottati nella vicina Liverpool e poi scortati sino ai settori dello stadio loro riservati.

MALDINI E ZAMBROTTA

    Parto in tarda mattinata, rinunciando a visitare il centro di una città non certo nota per la propria bellezza. «Vivere a Londra ti vizia, qui è tutto un mondo diverso, un mondo primitivo, pieno di gente primitiva». Scrive John King in “Fedeli alla Tribù”, best seller sul mondo hooligan d’Inghilterra. Unica vera attrattiva del luogo l’Old Trafford, il Teatro dei Sogni.

Le lusinghe al marketing hanno portato alla costruzione di un moderno ed enorme shopping store ma di particolare suggestione rimane “The Munich Clock”, l’orologio fermo alle 3.04 del 6 febbraio 1958. Ricordo perenne e doloroso del disastro aereo in cui si interruppe la favola di una generazione, ragazzi che a vent’anni avevano già conquistato due campionati.

Tra i sopravvissuti Bobby Charlton, icona indiscussa del calcio inglese. Intorno a lui il redivivo Matt Busby, ricevuta per ben due volte in ospedale l’estrema unzione, sarebbe riuscito a ricostruire la squadra, facendone un simbolo. Dieci anni dopo, persino la vittoria di quell’agognata coppa nel ricordo dei compagni scomparsi. Sulla fascia a brillare una delle stelle più luminose del firmamento calcistico europeo. «Se non fossi stato così bello, il mondo non avrebbe sentito parlare di Pelé». Firmato George Best. 

    Gli ingressi, realizzati con i tradizionali mattoni rossi delle abitazioni locali, già sembrano rievocare l’affascinante leggenda dei Red Devils. Mi affaccio, nervoso, tra i seggiolini della West End insieme a Lucio, compagno di un’avventura che, comunque vada rimarrà nella mente e, in base al risultato, nel cuore. Di fronte il muro bianconero illuminato dalla calda luce del sole serale. In uno stato di ansia crescente gli altoparlanti sparano musica pop a tutto volume. Ai più pessimisti l’atmosfera ricorda quella del Titanic con i suonatori che ne accompagnarono l’affondamento. “Volare” nella versione spagnola dei Gipsy King all’ingresso in campo delle squadre per il riscaldamento.

    Minuti interminabili. Finalmente l’arbitro, il tedesco Markus Merk, fischia l’inizio. Milan in maglia bianca, quella delle finali vittoriose. Se gli altri vogliono «11 piemontesi tosti» la nostra coreografia risulta tanto semplice quanto spettacolare. Cartoncini sullo sfondo, croce di Milano e l’enorme scritta: «RICONQUISTIAMOLA». Olio su tela dipinto da un genio troppo presto volato lassù. Ciao Pedro. 

    Inizio veemente. Rete discutibilmente annullata a Sheva, miracolo di Buffon su Inzaghi e Rui Costa a fil di palo. Sembra Monaco 1993. Invece della testa di Boli c’è quella di Antonio Conte. Questa volta, però, solo traversa. La Juve prende il controllo del gioco in una partita non certo spettacolare ma intensissima. Nessuna vera occasione da gol. Tempi supplementari. 

    «Seccera Nedved» ripetono come un disco rotto gli juventini,  rimpiangendo  l’assenza del futuro Pallone d’Oro. Effettuate tutte le sostituzioni consentite, si infortuna Roque Junior. Il brasiliano resta in campo menomato, regalando un’immagine da calcio d’altri tempi ma di fatto siamo in inferiorità numerica. Minuto 120: game over. 

La girandola dei rigori

«Dove cazzo vai?» urla Lucio.

    Sin da piccolo ho avuto una fottuta paura dei calci di rigore. Prima era il lancio di una moneta a decidere in caso di parità, ora questa specie di roulette sportiva chiamata così per la medesima identità demoniaca. La leggenda sulla sua origine parla infatti di un corrotto monaco francese, pronto a vendersi l’anima per inventare un gioco che lo facesse diventare ricco. L’esito infausto incombe sempre, ovviamente.  Persino un gol all’ultimo minuto è una possibilità, ma mai una certezza. I calci di rigore, invece, sullo sfondo di una partita decisiva si atteggiano come la soluzione finale, senza appello.

    Non riesco a guardare. Mi rifugio appena fuori. Nelle intenzioni una sorta di foyer teatrale, invero, solo un grande e asettico atrio prospiciente alle entrate verso il campo. Fortissimo, e quasi nauseabondo, l’odore di salsicce arrostite che pervade l’ambiente. Il fumo rende l’aria irrespirabile. Ovunque monitor: immagini della partita accompagnate dai concitati commenti di giornalisti inglesi pronti a raccontare il climax della stagione.

    Inizia la Juventus con Trezeguet. Rincorsa lunga e incerta, Nelson Dida para. Quindi, Serginho con apparente disincanto. Per la prima volta siamo in vantaggio. Sul dischetto, tra tanti campioni, il gregario Birindelli. Gol. Buffon arriva sulla conclusione angolata di Seedorf ripristinando la parità. Penso di andarmene proprio mentre Zalayeta sbaglia. Effimera illusione perché anche Kaladze si fa ipnotizzare da Buffon. Avverto un dolore nell’animo e nel corpo. La certezza di un esito ormai scritto a cui non voglio assistere.

    Discendo gli scalini quando avverto un boato. Troppo vicino per essere i tifosi della Juve. Corro a ritroso giusto il tempo di vedere il replay della parata di Nelson, la terza. Questa volta su Montero, pretoriano di Lippi e simbolo della sua squadra muscolare. Tocca quindi a Sandro Nesta, l’oggetto del desiderio estivo. È solo il secondo rigore della sua carriera ma adesso conta la classe, il carisma. Apre il piatto verso l’angolo alto alla sinistra di Buffon. 2-1.

    Quinta serie, l’ultima. Del Piero non trema, spiazza Dida pareggiando ancora i conti. La gloria è ai piedi di Shevchenko. Dal cerchio di centrocampo al dischetto, quaranta metri di tutto.  Incredibile quanti pensieri e quante persone ci possano stare, in così poco spazio, in così poco tempo. Una persona che cammina solitaria e la vita che scorre, la sua, la mia e di tanti altri. La tripletta di Galderisi, Lo Bello padre e figlio, quei ragazzini festanti all’oratorio mentre io, mesto, andavo a casa. Fiumi di ricordi in un dischetto così piccolo. 

    Sheva appoggia il pallone a terra, guarda l’arbitro. Guarda Buffon. Poi ancora l’arbitro e di nuovo Buffon. Per quattro volte. Sono in cima agli scalini, l’ucraino è dalla parte opposta del campo e non posso certo vedere i suoi occhi freddi e determinati. Lo specchio dell’anima, dicono. Calcia. Portiere da una parte e il pallone dall’altra, istantanea che a distanza di anni è ancora sul desktop di tanti computer, in fotografie appese nelle camere nonché fonte d’ispirazione artistica. Gol: 3-2. La nemesi della storia fa finalmente giustizia.

Una notte che vale una vita

    Corro, buttandomi nella mia Curva che sembra travolta da un’onda gigantesca. Gli spalti letteralmente tremano. In questo momento non c’è nulla di più importante al mondo. Intorno a me tante facce conosciute, anni di stadio vissuti a braccetto tra vittorie e delusioni. Ora la gioia più grande. Paolo Maldini, quarant’anni dopo il padre Cesare, alza la coppa più importante di sempre nel cielo d’Inghilterra. Non vorremmo mai lasciare lo stadio, come a dilatare all’infinito il momento e a imprimere in maniera indelebile dentro di noi ogni particolare, ogni sfaccettatura. La persistenza della memoria. Quella che Salvator Dalì raffigurava in maniera surreale con orologi molli dalla consistenza quasi fluida, per noi è un carico di emozioni capace di colorare mesi di ordinaria monotonia. Una notte che vale una vita.

    Secondo tradizione, i voli sono in enorme ritardo. Il Terminal 2 del Manchester Airport, con migliaia di tifosi accampati ovunque, si trasforma in una gigantesca arena tra birre e cori. << Siamo noi, siamo noi, i campioni dell’Europa siamo noi». Una strana sensazione di benessere, difficile da descrivere. Aponia e atarassia, l’epicureo fine della vita. L’aereo decolla quando sono circa le cinque del pomeriggio. Nel dormiveglia, mentre sorvoliamo la Manica mi sembra di essere ancora all’Old Trafford in quella schizofrenica alternanza di emozioni. La follia dei rigori, Sheva che cammina lentamente, la rete che si gonfia e quel mio ancestrale timore in dissolvimento. Da questo momento nulla sarà uguale. 

    Io non ho più paura.